Il counseling è un percorso di ricerca di strade nuove, di equilibri accettabili, di vie di uscita quando un problema diventa soggettivamente insostenibile e riduce le capacità di vedere ed inventare soluzioni.
Il counseling è un processo co-istituito, in cui l’operatore-Counselor è lo strumento essenziale del colloquio e l’esito del percorso è il risultato e il prodotto della dinamica specifica, instauratasi tra il cliente e il Counselor.
«Il dialogo di sostegno non assume alcuna modulazione di tipo persuasivo, non è né convincente né insistente, non è ripetitivo o penetrante. La sua modulazione è estemporanea, apparentemente disordinata e frammentaria: è il soggetto che fa suo un filo logico sottointeso alle parole, riempiendo i vuoti ed usando la sua logica personale associa il messaggio ai vissuti empatizzati. Il sostegno richiede sensibilità ed autocontrollo…Il colloquio clinico è un incontro, uno scambio; ma non uno scambio qualunque. Nel colloquio clinico al centro è la persona, con ciò che mette in gioco di sé, con ciò che vuole migliorare della sua vita, con i suoi bisogni espliciti e quelli non detti. La persona che arriva in consulenza..ha già riconosciuto di avere un problema da risolvere e di avere la necessità di essere aiutata per trovare la propria soluzione personale alla questione. Ciò significa che di fronte allo stesso problema, ci possono essere soluzioni diverse, dipendenti dalla personalità, dalle circostanze e, soprattutto, dalle risorse interne su cui si può contare per aiutare la persona a gestire le circostanze..in alcuni casi il Counselor si troverà ad attivare un processo di cambiamento radicale delle condizioni esistenziali del richiedente; in altri casi, si potrà solo individuare il modo migliore per negoziare con una realtà non modificabile» (Mazzoni, 2005).
La prima veste che il counselor deve imparare ad indossare è quella di “Artigiano dell’Educazione”, intendendo con questa espressione «tutti quegli uomini che, nella semplicità della vita quotidiana, agiscono con interventi educativi rivolti al loro prossimo e trasferiscono, da una generazione all’altra, la cultura dei valori costruita dall’umanità nel corso dei secoli. Il loro è un sapere artigianale…» (Mazzoni, 2005), la cui prima finalità è quella di aiutare l’individuo, la coppia, la famiglia in situazione di sofferenza ad essere più liberi: recidere i condizionamenti, stimolare l’autonomia, dare coraggio nella presa di decisioni, interrompere il reiterarsi di copioni appresi e automatici, elevare la consapevolezza di sé, insegnare a guardarsi a conoscersi, a “coccolarsi” o a rimproverarsi.
Il counseling è un intervento breve, al termine del quale il cliente potrebbe anche non avere cambiato il suo modo di essere, ma sicuramente avrà affinato le sue personali tecniche di fronteggiare i problemi, primo tra tutti quello specifico per il quale ha chiesto l’intervento del counselor, avrà raccolto nuove informazioni, avrà ampliato le sue ipotesi, avrà scoperto nuovi punti di vista.
«Essere counselor significa..entrare in contatto con una persona tanto velocemente quanto intensamente, accendere una discussione importante, confrontarsi e poi lasciare che la persona faccia la sua scelta e trovi in se stessa le risorse per metterla a regime. Non risolvere il problema, ma insegnare a farlo, in poco tempo, con grande precisione. Evitando di condizionare esercitando pressioni reiterate nel tempo..ma solamente offrendo una visone alternativa» (Mazzoni, 2005).
Nella nostra società è evidente il bisogno di counseling. Questa esigenza è esplicita nella gran parte dei settori sociali di oggi, dalla scuola alle aziende, dalla famiglia alla coppia e all’individuo singolo e solo; sarebbe impossibile enumerare ed elencare gli ambiti sociali in cui la “strana” figura del counselor potrebbe essere utile o fondamentale, in quanto sono molti gli ambiti del nostro agire sociale, compresa la sfera personale e interiore, in cui si aprono voragini di malessere. Può sembrare semplicistico, ma il counselor sta bene ovunque. La genericità di questa affermazione rende bene la dimensione crescente del malessere che pervade la nostra epoca: siamo chiamati a vivere in un periodo storico in cui mutamento e crisi non sono più accidentali e temporanei, in cui gestire un continuo divenire è la sfida a cui sono chiamati a rispondere i nostri sistemi sociali quotidianamente, pena il loro sgretolamento e la loro disfunzionalità.
C’è una verità semplice ed evidente, ma poco esplicitata, che si scopre collaborando e frequentando alcune tipologie di professionisti (insegnanti, infermieri, educatori, medici ecc.) che devono necessariamente, e non possono fare a meno, di comunicare con i loro utenti-pazienti-clienti in situazioni sempre diverse, non sempre ideali, con la consapevolezza che dalla qualità della loro comunicazione dipende gran parte del successo del loro intervento: comunicare è difficile.
Non tutti siamo in grado per indole personale a comunicare bene, e solo alcuni hanno avuto la fortuna o l’occasione di acquisire una formazione in proposito, il resto si ritrova a sperimentare fallimenti e frustrazioni nella pratica quotidiana. Spesso nello svolgimento di attività professionali come quelle elencate si scopre che ciò che si è detto è stato frainteso, che ciò che è stato detto e apparentemente capito non viene però tradotto nei comportamenti richiesti.
Le situazioni professionali in cui si manifestano maggiormente queste difficoltà comunicativo-relazionali sono i “pubblici servizi”, scuola, servizi sociali, sanità: perché i pazienti/utenti/clienti/cittadini sono spesso imprigionati in quella che ritengono una situazione insoddisfacente, ma non hanno la possibilità di abbandonare il campo e, magari, scegliere un’altra scuola, un altro ospedale, una differente equipe medica.
Il malessere di quella che può essere chiamata società post-moderna, post-materialista, globalizzata, relazionale complessa, sembra derivare principalmente da una comunicazione e una relazione tra individui sempre più improbabile: si assottigliano le probabilità che la comunicazione intersoggettiva sia vissuta come significativa per i soggetti in interazione; diminuisce la probabilità che il contesto oggettivo possa favorire una comprensione intima e simpatetica tra chi comunica; diminuisce la probabilità che si realizzino le condizioni specifiche della comunicabilità, cioè, che la comprensione comunicativa tra gli individui in interazione sia estensivamente suscettibile di ricezione da parte di altri; diminuisce, infine, la probabilità che la comunicazione abbia successo, nel senso che le selezioni operate dall’emittente siano fatte proprie dal ricevente e viceversa. Queste caratteristiche della comunicazione odierna si riflettono nell’implosione delle relazioni di sostegno, di aiuto tra persone: sia la solidarietà spontanea, di mondo vitale, tra singoli o gruppi informali sia le relazioni istituzionali come quella tra medico e paziente soffrono dell’incapacità di padroneggiare relazioni profonde e personalizzate. Le cause di questa difficoltà relazionale si possono ricondurre alla prevalenza di forme comunicative secondarie (impersonali e tipizzate) e terziarie (strategiche e informativo-performative) a discapito di quelle primarie (di “mondo vitale”, di senso comune).
Per quanto riguarda l’area dei bisogni a cui risponde la relazione d’aiuto proposta dal counseling questi sembrano interessare quell’area di malessere che ha molto spesso origine sociale e psicologica e che non può essere definibile come patologia, ma che è vissuta soggettivamente come non-salute.
Questo tipo di sofferenze investono tutti gli ambiti e gli ambienti sociali. Lo scenario che si presenta è quello di una crisi generalizzata, che manifesta una difficoltà di fondo che infetta di sé tutti gli ambiti del nostro agire quotidiano e che sembra frutto della difficoltà dei nostri sistemi sociali di gestire una complessità sociale sempre più elevata e sofisticata. L’autopoiesi dei sotto-sistemi sociali si sgretola di fronte alla complessità crescente scaturente dall’ambiente. Questa ipercomplessità si manifesta nella polverizzazione dei bisogni sociali, sempre più individuali e personalizzati, sempre più specifici e locali, di conseguenza sempre meno comprensibili e lontani dagli apparati sistemici preposti alla loro soddisfazione; i “vecchi” modi di rispondere alle esigenze della società non sono più adatti e adeguati: la scuola insegna sempre di meno, i disturbi relazionali e di personalità sono sempre più numerosi, gli emarginati sono sempre più allontanati, la medicina cura sempre di meno.
La figura del counselor appare come un tentativo di risposta a questi vuoti, è una proposta emersa spontaneamente dai mondi vitali della società civile per colmare l’assenza di nuove ed efficaci figure di aiuto.
Osservando l’attuale epoca sociale post-moderna, ci si rende conto di molte manifestazioni di questa esigenza, le quali si concretizzano in fenomeni sociali nuovi, tra i quali emerge con progressiva intensità quello di una figura di aiuto ibrida, polifunzionale, elastica. Questi nuovi attori sociali presentano delle caratteristiche, dei saperi e delle competenze eterogenee che li rendono assimilabili e spesso simili alla professione del counselor: il medico olistico e alternativo, l’educatore socio-assistenziale del Terzo Settore, lo psicologo del lavoro, quello di sostegno nei consultori, nelle scuole, nelle aziende private, gli operatori di strada, gli orientatori professionali, i coachers, i tutor nella formazione universitaria, i motivatori di team di lavoro ecc.; tutte queste attività hanno delle particolari specificità che non rendono possibile l’assimilazione, però presentano dei connotati comuni di cui si può tentare una parziale elencazione:
– formazione multi-disciplinare
– competenza psico-relazionale
– capacità e predisposizione empatica
– padronanza nella gestione di tecniche di intervento di gruppo
– approccio umanistico
– approccio personalizzato
– conoscenze di mondo vitale
– brevità dell’incontro di aiuto
– disponibilità e disposizione all’ascolto
– effetti a breve o medio raggio
– approccio tendente a ridurre la complessità del reale
– utilizzazione di schemi elastici, veloci e semplici
– ruolo di ponte tra il mondi della vita quotidiana dei soggetti e le iper-specifiche risposte dei sottosistemi sociali.
Questa batteria di caratteristiche connota la figura professionale del councelor, figura poliedrica e multifunzionale, che richiede come prerequisito allo svolgimento della sua performance un atteggiamento di apertura mentale e una elasticità in grado di modularsi alle diverse funzioni e ai diversi bisogni degli individui. Il counselor non può affrontare le diverse situazioni con uno schema fisso e prestabilito, ma deve implementare strategie diverse in base alla reale e concreta situazione che ha di fronte; il processo d’intervento si deve plasmare alle caratteristiche dell’essere umano sofferente a cui occorre proporre una direzione per affrontare il suo malessere soggettivo; conferma di questo modus operandi sono le prassi di base della conduzione di un incontro di counseling, il quale è comunque e sempre un incontro magico con l’intimità sofferente dell’altro, la quale deve essere scoperta con delicatezza; il counselor entra in contatto con l’altro nel corso di un suo momento di difficoltà, quando qualcosa sembra non funzionare più e il counselor deve aiutare il suo interlocutore a ricercare il bandolo della matassa per tentare di districarla. Le caratteristiche di base di un incontro di counseling riguardano:
• Il setting: lo spazio e il tempo dell’incontro tra l’operatore e il cliente. Può essere stabile o cambiare; nel caso che la procedura di contatto sia quella classica della psicoterapia il setting è in genere lo stesso per tutti gli incontri, questa possibilità ha dei vantaggi in molte situazioni, infatti aiuta la creazione della bolla magica tra i due individui in relazione, placa i deliri intellettuali del creativo, il quale non può spaziare eccessivamente e viene inchiodato nella situazione reale; rassicura l’ansioso che deve sempre recarsi nello stesso posto e non è costretto ad adattarsi costantemente a nuovi scenari. In alcune situazioni il setting è accidentale, per esempio se il cliente è ricoverato, o se non può muoversi da dove abita. In ogni caso il counselor deve essere in grado di essere elastico e pronto al variare dei casi, il suo valore aggiunto sta proprio nella capacità di adattamento, nella sua preparazione a modulare l’intervento in casi diversi e distanti: spesso il counselor può lavorare per strada, nei bar, nelle palestre delle scuole.
• Delineazione del problema: la prima fase dell’incontro deve tendere all’emersione del problema; questa prima tappa non si ottiene sempre facilmente, infatti spesso il problema manifesto, di cui il cliente è consapevole, non è il vero problema, quello profondo da cui deriva quello esplicitato; altre volte il problema è evidente, come nei casi di patologie corporee, in questi casi occorre approfondire i problemi secondari correlati con la patologia, quindi le difficoltà nella conduzione della vita quotidiana, i timori di stigmatizzazione, l’auto-percezione, ecc. La delineazione del problema è necessaria per definire realisticamente la questione su cui si vuole e si intende lavorare.
• Le tecniche a disposizione del counselor sono varie e devono essere utilizzate congruamente alla situazione e al contesto reale di interazione, non sono rigide, non sono regole, sono possibilità. Quelle acquisite seguendo l’indirizzo trans-teorico sono: il “silenzio” , “l’ascolto attivo”, “la comunicazione dinamica”, “la comunicazione narrativa”; “la comunicazione simbolico-cognitiva”, l’osservazione dei particolari, “il rimprovero”, “l’incoraggiamento”, “l’insegnamento”, “il coinvolgimento emotivo”, “la tranquillizzazione”, “il sostegno”, “la gratificazione”, il gruppo di incontro, l’accoglienza scolastica ai nuovi arrivati, gli homework, l’auto biografia. L’utilizzo di questi strumenti e tecniche relazionali si configura in base alle esigenze dei clienti, sia singoli che gruppi; un’altra specifica potenzialità del counseling, infatti, è quella di essere adattabile e riferire sia alla singola persona che al gruppo: dal giovane con problematiche socio-comportamentali, al ricoverato in ospedale, all’alunno con problemi di apprendimento, al gruppo dei bocciati di una classe o di un’intera scuola, al gruppo di tutor per un progetto di accoglienza, al gruppo di pazienti di un qualunque reparto o all’equipe sanitaria di quella unità operativa, ecc.
La possibilità del counseling di adattarsi a tante situazioni con caratteristiche differenti rende questo approccio prezioso e polivalente, infatti sono rari gli approcci-intervento oggi presenti sulla scena del sociale che dichiarano apertamente di fondarsi su una epistemologia della tolleranza, la quale non divide, ma unisce le varie aree del sapere, non si chiude in se stessa, ma cerca l’integrazione, il completamento, non si dichiara la migliore, ma accetta consigli e si apre agli spunti esterni, con umiltà e senza alcun pregiudizio.
Il counseling è in grado di dare risposte così differenziate, diventando così uno strumento flessibile, dipende dalla formazione del counselor, la quale dovrebbe essere trans-teorica, cioè improntata al movimento, alla transizione in campi differenti del sapere umano, dalla psicologia, regina di questa professione, all’antropologia; dalla psico-somatica alla pragmatica comunicazionale; dalla criminologia alla sociologia della salute. Questo tipo di conoscenze inoltre transitano senza soluzione di continuità dal teorico alla pratica, dal generale al particolare, apprezzano sia il metodo induttivo che quello deduttivo, trovano però compimento soltanto nell’adduzione; non interpretano il micro come sostanza del macro e non considerano il macro come la generalizzazione del micro, ma si muovono in continuazione tra micro e macro, non c’è spiegazione di uno senza l’altro.
L’essenza della professione del counselor sta in una capacità specifica, la quale attraversa trasversalmente tutte le aree citate: la comunicazione. Il bagaglio comunicativo-relazionale del counselor gli permette di sintonizzarsi sull’unicità della persona con cui a che fare, esplorando tutte le varie componenti che strutturano quella specifica e unica personalità, ma, allo stesso tempo di riportare quella unicità in un insieme di casi simili, dai quali ci si può aspettare un comportamento e delle reazioni simili, anche se non identiche. La mancanza di capacità comunicativo-relazionali sembra il grande deficit di tutte le professioni sociali odierne, a cui il counseling, invece, propone una risposta concreta: «Per far fronte ai problemi e ai dissesti prodotti da questo analfabetismo comunicativo, emotivo e relazionale stanno emergendo da vari anni nuove professioni: dal counsellor relazionale al mediatore famigliare, dallo psicoterapeuta della coppia al consulente aziendale, dal formatore specializzato in comunicazione interpersonale, all’addetto alle relazioni con il pubblico. Non solo, ma anche molte professioni tradizionali si stanno accorgendo dell’importanza di integrare la propria formazione con saperi e tecniche attinenti la sfera interpersonale ed emozionale, dai manager ai formatori, dagli insegnanti ai medici» (Mazzoni, 2005).
Mazzoni E. (2005), Essere un counselor, in M. Martelli (2005) (a cura di), Orientare perché, “I quaderni della della valtiberina”, Toscana n.15, Sansepolcro
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