Di moda tutti hanno detto o scritto, sulla sua natura effimera in molti si sono interrogati. Eppure, come per ogni argomento sfuggente e tuttavia pervasivo, sembra che anche per la moda si possa ancora dire tutto ed il contrario di tutto…
Ma cosa s’intende veramente per “moda”?
La parola moda indica una concezione del costume generalmente accettata e ritenuta valida in un determinato momento storico. Spesso siamo abituati ad identificarla con l’abbigliamento, col modo di vestirsi di ogni persona, ma non è solo questo. Si tratta di tutto lo stile di vita, di tutti i mezzi di espressione – come l’architettura o l’arredamento – di cui l’uomo dispone, dei modi di comportarsi in società e degli oggetti di uso più comune.
La moda è dunque un aspetto del comportamento del singolo individuo che diventa comportamento di una comunità sociale, la quale si esprime a seconda del gusto del momento. E’ un fenomeno che con velocità variabile, a seconda del tempo e delle situazioni, si diffonde nella società partendo da gruppi ristretti per poi arrivare a coinvolgere la massa della popolazione, acquisendo via via un carattere sempre più vincolante sull’individuo.
Secondo una classica definizione la moda è la regola del cambiamento, un certo regime del gusto: qualcosa che ieri non piaceva, che domani non ci sarà più, oggi riscuote l’approvazione generale. All’improvviso la moda diventa regola e tutti, senza nemmeno averlo deciso in maniera consapevole, si trovano a seguire il nuovo costume, o almeno a condividerlo: non più gonne corte ma lunghe; no alla cravatta larga e sì a quella stretta; no alla carne meglio essere vegetariani; perfino in politica ed in religione un principio finisce per prevalere sull’altro.
A questo punto un concetto sembra chiaro: «La Moda cambia». Essere alla moda significa vivere nell’effimero, aggiornarsi continuamente, inseguire un flusso di regole infinito.
Ma anche un’altra cosa è fuori dubbio: «La Moda comunica». Basta pensare agli abiti: nell’indossarne uno ciascuno di noi scrive la propria identità sul suo corpo; attraverso l’abito “comunichiamo” quel che siamo (o mentiamo circa il nostro essere) e gli altri ci capiscono e si fanno una certa idea di noi. Gli abiti possono rivelare le nostre priorità, le nostre aspirazioni, il nostro progressismo o conservatorismo; possono anche essere utilizzati per trasmettere in modo conscio o inconscio, aperto o nascosto messaggi di carattere sessuale; sono capaci di dare tono e colore a ciò che ci circonda e che dà forma ai nostri sentimenti.
Che gli abiti possano significare (o anche mentire) è d’altronde un concetto così comune da essere finito nella saggezza dei proverbi; non manchiamo del resto di recitare spesso il detto “l’abito non fa il monaco”: non lo fa, è vero, ma lo significa e lo comunica.
Da questa breve analisi del significato della parola «moda» possiamo leggerne due aspetti: il primo è quello della moda intesa come comportamento sociale mutevole, a cui si sono dedicati molti sociologi a partire da George Simmel fino ad arrivare per esempio al contemporaneo Ugo Volli; il secondo è quello della moda intesa come un linguaggio capace di comunicare qualcosa di non verbale, a cui si sono interessati numerosi semiologi, tra i quali spicca indubbiamente il nome di Ronald Barthes.
Alberoni chiama «moda» ciò che è valido ora e per un certo periodo di tempo, ma che si sa che avrà una vita limitata destinata all’estinzione. La moda appartiene a quella serie di movimenti transitori che coinvolgono sì l’uomo ed il suo comportamento, ed il comportamento collettivo in genere, ma che non lo coinvolgono fino in fondo nella personalità. Questo significa che la moda non conduce chi l’adotta a mettere in discussione il proprio entroterra culturale e strutturale; se ciò accadesse si trasformerebbe in costume e non sarebbe più un qualcosa di transitorio, ma di permanente. Invece scompare perché non è interiorizzazione né dei valori né dei modelli.
La moda inoltre – dice Alberoni – tende a tradursi in un segno di successo, e quindi di prestigio. Essa, infatti, è conservativa, servile; per ritrovare una direzione deve sapere con chi si deve identificare, cioè deve sapere che cosa vuole chi ha successo, quali forze esprime ed afferma. Solo così può avvenire il superamento del vecchio.
Laddove c’è scarso livello di interiorizzazione dei valori – continua Alberoni – non può esserci reale mutamento; quindi le mode servirebbero a facilitare il cambiamento dei valori in una società. Ma poiché questo cambiamento è sempre traumatico per una società – e talvolta può anche rivelarsi sbagliato – la moda non sarebbe altro che un meccanismo in grado di sperimentarlo, di produrlo cioè lentamente, piano piano, in modo non solo da consentirne l’introduzione non immediata e destabilizzante, ma da offrire anche la possibilità di un ripensamento, di un ritorno indietro, qualora questo cambiamento si rivelasse inutile o dannoso per la società.
Ma come fanno le mode ad agire in questa maniera «soft» nei confronti del cambiamento dei valori? Alberoni risponde ricordando che esistono forme di socialità particolari, che lui definisce «statu nascenti», che hanno proprio la caratteristica di essere molto leggere, superficiali, epidermiche; nel senso che avvicinano gli individui ma soltanto un poco e soltanto in relazione ad un interesse collettivo particolare. E’ quanto ad esempio avviene nel caso del tifo sportivo o del divismo, dove appunto le persone per un breve momento ed in relazione ad un oggetto di interesse particolare si avvicinano e, in qualche modo, solidarizzano. Scatta quindi sì un fenomeno di socialità, ma non così consistente da intaccare altri piani del vivere sociale. Il fatto però di essere fenomeni leggeri, statu nascenti appunto, rappresenta anche il limite oggettivo di queste mode, nel senso che una volta raggiunta la massima diffusione, una volta ottenuta la massima accettazione, il processo è costretto ad estinguersi, proprio perché se proseguisse esso inciderebbe necessariamente su quelle cose che ha inizialmente scavalcato. Se cioè non si esaurisse automaticamente, una moda diventerebbe un fatto di costume, con tutte le conseguenze politiche ed etiche che questo comporta. Lo scomparire della moda proprio nel momento della sua massima diffusione è il motivo del suo carattere ludico, di gioco, di «bel gioco che dura poco». Ogni moda è quindi condannata in partenza; si sa già che morirà, che finirà. Anzi è proprio questa la condizione della sua nascita: le persone aderiscono solo perché sanno di giocare e perché sanno che il gioco, prima o poi, cesserà. E di qui evidentemente la sua natura ciclica: finita una moda ne nasce un’altra, destinata a fare la stessa fine, e poi un’altra e così via.
Ma se la singola moda, proprio per il suo carattere di ludica successione con quella seguente, non si trasforma in costume, lo stesso – sostiene Alberoni – non si può dire per la successione di molte mode in un certo lasso di tempo. La moda, cioè, non cambierebbe il costume in una sola azione ma «per sedimentazioni successive».
Una conclusione che dunque si può trarre è che le mode hanno una funzione di tipo integrativo ed adattivo, nel senso che aiutano il sistema sociale a tenersi in piedi e nel miglior equilibrio possibile, facendogli evitare, grazie al loro meccanismo, cambiamenti troppo bruschi. Tutto ciò però risulta quando ci chiediamo il significato che certi fenomeni, in questo caso le mode, hanno per la società nel suo insieme. Cosa succede infatti se ci si sposta da questo livello d’analisi macrosociologico a quello microsociologico?
Innanzi tutto bisogna sottolineare che nei processi di moda esistono due gruppi distinti di soggetti, i leaders – quelli che anticipano, introducono la moda – ed i followers – quelli che seguono, che adottano cioè l’iniziativa dopo un certo tempo. Ora, quale tipo di relazione unisce queste due categorie di soggetti?
Una delle tesi più diffuse, che si riallaccia ai classici del pensiero sociologico, come Spencer, Simmel, Veblen, ecc., è che tra questi due gruppi esisterebbe un “conflitto”, o meglio una competizione, per appropriarsi dei simboli di prestigio. Da una parte esisterebbero persone di élite, i leaders, che cercherebbero a tutti i costi di distinguersi dalla maggioranza modificando continuamente le proprie preferenze; e dall’altra persone, i followers, che cercherebbero di appropriarsi di questi simboli, segni di distinzione. Secondo questa interpretazione, quindi, le mode, per la loro ciclicità e per il modo in cui si rincorrono leaders e followers, costituiscono un sistema che ha lo scopo di regolare l’entità e la natura della diseguaglianza sociale.
Questa interpretazione dei fenomeni di moda, prima accuratamente teorizzata, agli inizi del ‘900 dall’economista americano Veblen, e poi ripresa negli anni ’50 da un altro economista, Duesenberry, in tempi più recenti è stata respinta da alcuni sociologi.
Nel dibattito attuale sulle mode e sulla diffusione dei nuovi prodotti e stili di vita, molti studiosi ritengono che questa ipotesi, nella nostra società di benessere, abbia perso ogni valore; le motivazioni di prestigio sociale sarebbero cioè estranee al consumatore moderno o, tutt’al più, limitate ad una ristretta fascia di consumi, quelli appunto detti di status. Ha commentato in merito un grande studioso, Gerardo Ragone, che sostiene la tesi delle mode quali strumenti di produzione di differenze sociali, osservando che se oggi noi non vediamo più nel comportamento degli individui e dei consumatori quel tipo di confronti invidiosi che caratterizzavano in passato le loro scelte di consumo e quelle delle famiglie, questo non vuol dire necessariamente che tali confronti non esistano più, che siano definitivamente scomparsi o tramontati. Potrebbe semplicemente anche darsi che non appaiano più, non siano cioè così evidenti, manifeste, plateali quasi, come lo furono in passato, ma siano in qualche modo celate.
In altri termini, in società come le nostre, caratterizzate da alti livelli di benessere, da gradi molto elevati di mobilità sociale e da altissimi ritmi di innovazione nella produzione dei beni di consumo, i meccanismi di competizione antagonistica nella domanda di beni e nella diffusione delle mode potrebbero essere divenuti estremamente sottili ed impalpabili, e quindi difficilmente percepibili ad occhio «nudo». Quindi, all’apparenza, oggi le mode si presenterebbero come processi democratizzati e democratizzanti, mentre nella sostanza, esse riproporrebbero la logica tradizionale della differenziazione e del conflitto simbolico.
Ragone, di fronte a queste due interpretazioni molto diverse conclude che bisogna ritenerle valide entrambe dal momento che tutte le società hanno sempre, contemporaneamente, un bisogno di stabilità, di equilibrio ed un bisogno di mutamento, trasformazione. Molti fenomeni sociali hanno questa doppia valenza ed è un problema del singolo ricercatore accogliere l’una o l’altra prospettiva a seconda che i suoi interessi siano rivolti al conflitto o all’integrazione sociale.
Bibliografia
BARTHES R. 1970 – Il sistema della moda, Einaudi, Torino.
RAGONE G.1992 – Sociologia dei fenomeni di moda, Franco Angeli, Milano.
SIMMEL G. 1998 – La moda, Mondadori, Milano.
TARDE G. 1976 – Scritti sociologici, a cura di Ferrarotti F., Utet, Torino.
VEBLEN T. 1949 – La teoria della classe agiata, Einaudi, Torino.