E se torniamo a parlare della solitudine
si chiarisce sempre più
che non è cosa che sia dato di scegliere o lasciare.
Noi siamo soli.
Ci si può ingannare su questo e fare come se non fosse così.
Ma quanto meglio invece sarebbe
comprendere che noi lo siamo, soli,
e anzi partire da lì.
E allora accadrà che saremo presi dalle vertigini;
perché tutti i punti su cui il nostro occhio usava riposare
ci vengono tolti,
non v’è più nulla di vicino,
e ogni cosa lontana è infinitamente lontana.
Chi dalla sua stanza,
quasi senza preparazione e trapasso,
venisse posto sulla cima di una grande montagna,
dovrebbe provare un senso simile:
una incertezza senza uguali,
un abbandono all’ignoto quasi l’annienterebbe.
Egli vaneggerebbe di cadere
o si crederebbe scagliato nello spazio
o schiantato in mille frantumi.
Quale enorme menzogna dovrebbe inventare il suo cervello
per recuperare e chiarire lo stato dei suoi sensi.
Così si mutano per colui che diviene solitario
tutte le distanze, tutte le misure;
di queste mutazioni molte sorgono d’improvviso e,
come in quell’uomo sulla cima della montagna,
nascono allora straordinarie immaginazioni e strani sensi,
che sembrano crescere sopra ogni capacità di sopportazione.
Ma è necessario che noi consumiamo anche questa esperienza.
Noi dobbiamo accogliere la nostra esistenza
quanto più ampiamente ci riesca; tutto,
anche l’inaudito deve essere ivi possibile.
È questo in fondo il solo coraggio che a noi si richieda:
il coraggio di fronte all’esperienza più strana,
più prodigiosa e inesplicabile,
che ci possa incontrare.
(Rainer Maria Rilke)