Il bambino di pochi mesi considera l’ambiente in cui vive un’estensione del proprio corpo: tutto ciò che avviene attorno a lui trova diretta risonanza dentro di sè, nella sua emotività. Questo modo di interpretare il rapporto tra sè e la realtà è detto animismo: il bambino attribuisce anche agli oggetti inanimati coscienza ed intenzionalità. Crescendo il bambino ha la sensazione che il mondo ruoti intorno a lui e ai suoi bisogni; il suo pensiero è basato sull’egocentrismo cognitivo (Piaget, 1937).
L’egocentrismo consiste nel riferire alla propria persona ogni esperienza e misurare il mondo secondo il proprio metro. Per questi motivi il bambino potrebbe arrivare a pensare di essere la causa d’eventi che in realtà non dipendono da lui e quindi compiere degli errori di valutazione, ad esempio, credere di essere stato lui la causa della separazione dal suo nucleo d’origine. Anche se il genitore adottivo cerca di spiegargli la sua storia, il bambino mostra d’avere un’idea poco chiara dell’adozione, proprio perché la comprensione va di pari passo con lo sviluppo cognitivo.
Lo sviluppo cognitivo avviene grazie a processi d’assimilazione e d’accomodamento che proseguono durante tutto il percorso della vita (Piaget, 1936).
Il bambino nasce con il desiderio di mantenere un senso d’organizzazione e d’equilibrio nelle proprie conoscenze e nella propria visione del mondo (equilibrazione).
Quando si trova davanti ad un’esperienza cerca di adattarsi ad essa, ossia mette in atto due meccanismi che sono contemporaneamente antagonisti e complementari in quanto servono ad un’unica funzione: l’assimilazione e l’accomodamento.
L’assimilazione consiste nell’incorporare il mondo esterno negli schemi operativi motori, emotivi, mentali che il bambino già possiede.
L’accomodamento trasforma questi schemi adattandoli agli oggetti per essere in armonia e mantenere l’equilibrio con la realtà esterna.
Il compito più importante nel primo anno di vita è lo sviluppo del senso di fiducia, a cui sono collegate tutte le altre dimensioni evolutive. Fiducia significa che il bambino può contare sui propri comportamenti, così come su quelli delle persone con cui vive.
Se questa fiducia di base non si forma, il piccolo non avrà una sufficiente sicurezza in se stesso e dubiterà delle intenzioni degli altri. La fiducia in sè e negli altri va di pari passo con la progressiva percezione di una differenza tra il proprio corpo e quello della madre. Crescendo si colgono i confini fisici e psicologici tra l’Io e il non-Io. La formazione di questi confini, avviene attraverso un processo che si svolge nel tempo.
Winnicott definisce fase transizionale dello sviluppo dell’Io, quella attraverso cui, tra i quattro e i dodici mesi, il bambino costruisce un rapporto tra pura soggettività e realtà oggettiva.
Winnicott ha postulato uno spazio potenziale tra il bambino e la madre, per dare al gioco un suo “luogo”. Lo spazio potenziale viene colmato da specifici oggetti simbolici definiti oggetti transizionali; questi permettono alla madre di allontanarsi, mentre il bambino se la sente vicino simbolicamente.
Winnicott riconduce ad una stessa linea di sviluppo il sorgere della fase transizionale, il suo successivo tradursi in gioco immaginativo e infine il vivere creativo e all’intera vita culturale dell’uomo adulto. Questa capacità di giocare e poi di vivere creativamente è determinata dal rapporto di fiducia o meno che inizialmente il bambino ha avuto con il mondo esterno. Sono proprio i simboli sostitutivi della madre, il gioco creativo e l’esperienza culturale che nella mente del bambino evitano la separazione.
Daniel Stern, noto psichiatra infantile, ha individuato quattro momenti dell’emergere del senso di sè nel corso dei primi dieci mesi di vita, momenti che corrispondono ad altrettante scoperte da parte del bambino che si apre alla vita:
- Sè poroso. Il neonato tenta di coordinare le prime percezioni, emozioni, movimenti e sensazioni in modo improbo, poiché non ha ancora una visione d’insieme dei fenomeni. In questa fase non ci sono confini tra sè e il resto di un mondo totalmente “poroso”: non c’è differenza tra lui e la madre, tra il suo corpo e quello delle persone che lo accudiscono.
- Primo nucleo del sè. Gradualmente il bambino scopre di essere un’entità diversa e separata dalla madre; quando questa scoperta diventa chiara e stabile è come se il bambino vivesse una seconda nascita.
- Senso oggettivo di sè. Tra i sei e i nove mesi sia pure ad un livello molto iniziale, il bambino incomincia a capire le intenzioni degli altri da alcuni loro semplici comportamenti che si ripetono nell’arco della giornata.
- Senso di sè verbale. Intorno ai quindici, venti mesi si sviluppa il linguaggio che consente delle prime forme di riflessione su di sè. Le parole aiutano a pensare in un modo nuovo, ad un livello più rappresentativo; ora il bambino quando si guarda allo specchio, si riconosce e non pensa più di vedere un altro bambino. Tra il primo e il terzo anno di vita il bambino diventa, quindi, impegnato ad esercitare un controllo su di sè, sul mondo e mostra di avere una sana voglia d’autonomia: gli piace provare, fare e capire.
A questo punto si può affermare che quanto più salda e sicura è stata la formazione del primitivo Sè, tanto più sarà facilitato lo sviluppo dello stesso Sè nel suo cammino verso l’indipendenza e la maturità adulta.
Per le formazione di un Sè integro ed autentico occorrono, quindi, il potenziale ereditario del bambino e una madre “sufficientemente buona” (Winnicott, 1962).
Questi due fattori sono considerati, indispensabili caratteristiche per favorire i processi maturativi, ossia della continuità e dell’attendibilità. Senza il filtro di una persona che si prenda cura di lui, il piccolo non ha la presentazione di quelle porzioni del mondo adeguate alle sue possibilità, che potrebbero dargli ripetute occasioni d’illusione.
Senza il requisito della continuità, il bambino si trova davanti ad un compito arduo: il processo di scoperta del mondo e di riunificazione delle varie parti del suo Sè in un tutto coerente, possono risultare notevolmente ostacolati e compromessi. Il Sè, infatti, riconosce se stesso nell’espressione della madre e nello specchio che il suo viso può arrivare a rappresentare. Attraverso tale rispecchiamento il bambino conosce dal corpo e dai gesti della madre il proprio corpo e i propri gesti, riconoscendosi in lei.
Comunicare significa saper usare il linguaggio verbale e non verbale, in modo da trasmettere e comprendere efficacemente i messaggi.
La parola è ciò che permette di comunicare con gli altri, che fa accedere al mondo simbolico e crea legami affettivi con l’altro.
Bruner sostiene che il ruolo dell’adulto è essenziale per lo sviluppo delle competenze comunicative, in quanto il suo contributo non si esaurisce nel porsi in rapporto con il bambino. La capacità dell’adulto si basa sul modo di costruire questo rapporto: dare un significato ai suoni e alle prime espressioni infantili, rivolgere un’attenzione congiunta agli oggetti dell’ambiente. Questi scambi producono modelli d’interazione e garantiscono una capacità di creare significati condivisi, che iniziano già nel periodo neonatale.
Quando una madre e il suo bambino si trovano faccia a faccia, si verificano fasi d’interazione sociale. Ogni fase comprende espressioni facciali e vocali che portano la madre a modificare il proprio comportamento per adattarsi al bambino: ogni azione viene accordata per tempo e per forma a ciò che il bambino sta facendo.
La madre usa un linguaggio semplificato, la scelta dei vocaboli è ripetitiva e l’intonazione è particolarmente accentuata proprio per comunicare efficacemente con il bambino e facilitargli l’acquisizione del linguaggio. La velocità e l’efficienza con cui il dialogo si sviluppa e la mutua soddisfazione che produce, indica che ciascun partecipante è preadattato per impegnarvisi; da una parte c’è la prontezza intuitiva della madre, dall’altra c’è quella dei ritmi del bambino che si adattano gradualmente agli interventi materni. La madre dotata di sensibilità riesce ad accostarsi ai ritmi del suo bambino e a creare con lui un dialogo profondo, noto solo a loro due. Man mano che il bambino cresce il linguaggio diventa di tipo egocentrico, poiché il piccolo non riesce ad uscire dal proprio punto di vista per assumere quello altrui.
Le forme più tipiche di questo tipo di linguaggio sono: la ripetizione o ecolalia, il monologo e il monologo collettivo; in quest’ultimo caso più bambini parlano contemporaneamente ma ognuno si rivolge soltanto a se stesso.
Soltanto grazie all’informazione adattata il bambino uscirà dalla pseudo-informazione del monologo riuscendo a trasmettere ai suoi interlocutori informazioni comprensibili, socialmente adattate.
Lo sviluppo della capacità comunicativa del bambino è fortemente legata alla crescita della sua capacità a prendere in considerazione la prospettiva di chi ascolta ed è una conquista che presuppone il superamento di molti ostacoli sia di natura cognitiva che emotiva.
Per instaurare un rapporto basato sul dialogo e l’ascolto c’è, infatti, bisogno di una disponibilità emotiva, di una fiduciosa accettazione dell’altro.
Le persone non disposte ad accettare emotivamente la diversità dell’altro erigeranno barriere a livello comunicativo; soltanto con l’accettazione dell’altro si potrà costruire un rapporto.
Accettare significa ammettere la diversità dell’altro e capire che le azioni e pensieri sono diversi da persona a persona.
In questo periodo dell’autonomia il bambino acquista delle abilità che gli permettono di esplorare, prendere iniziative, porre domande su qualsiasi cosa vede o accade intorno a lui.
Le esperienze che compie in modo autonomo, come l’allacciarsi le scarpe, lavarsi i denti, guidare il triciclo, lo sostengono nella formazione della sua personalità. La riuscita rinforza la sua sicurezza e la sua disponibilità nel compiere altre esperienze. Per potersi sentire libero e sicuro, il bambino ha bisogno di avere un’idea di quali siano le regole e le aspettative degli adulti. Le regole aiutano a capire ciò che è lecito e ciò che è vietato in quanto pericoloso, ma devono essere poste in modo da non limitare l’entusiasmo e la creatività del piccolo. Tale creatività emerge con il pensiero simbolico: linguaggio e altre forme di simbolizzazione (gestualità, disegno…) permettono al bambino di ampliare la sua visione del mondo attraverso la rappresentazione mentale di persone, oggetti, eventi, situazioni. Questa capacità è molto importante perché consente di pensare al proprio mondo senza bisogno di dover agire su di esso attraverso i sensi, che pure continuano a restare per tutta l’infanzia un veicolo fondamentale di conoscenza.
Per quanto riguarda lo sviluppo del linguaggio, il bambino riesce ad utilizzare a livello del discorso le regole grammaticali e morfosintattiche che prima controllava solo a livello frasale. Grazie a questo progresso il bambino giunge a cimentarsi con interazioni verbali più complesse ad esempio evoca situazioni non presenti, fornisce resoconti di eventi ed esperienze passate. Secondo Pichert e Anderson durante l’ascolto di un testo un individuo se ne costruisce una rappresentazione mentale grazie a processi di inferenza che gli permettono di cogliere il significato delle singole proposizioni, di metterle in rapporto l’una con l’altra e di collegare le informazioni che ne trae con le conoscenze e le esperienze personali di cui dispone circa l’argomento in questione.
Un tipo di produzione particolarmente studiato per verificare la relazione tra l’organizzazione delle conoscenze e la produzione linguistica nei bambini è stata la narrazione di storie.
Narrare è un’attività che permette di cogliere il funzionamento di molti processi psicologici: l’uso della memoria episodica, semantica, l’attivazione di processi di problem solving, la sfera emotiva tramite i sentimenti che possono nascere verso i personaggi. Le storie, in particolare quei testi che entrano a far parte della vita quotidiana, contribuiscono alla strutturazione del Sè in un contesto sociale e rappresentano un vero e proprio prodotto culturale attraverso cui si tramandano valori, conoscenze e principi educativi.
Il periodo tra i tre e i sei anni è molto importante per lo sviluppo della socialità: il bambino ha un interesse crescente per i suoi coetanei e si avventura verso quel mondo sconosciuto che sta oltre la porta di casa.
Sebbene abbia già avuto modo di avvicinare altri bambini negli anni precedenti, è soprattutto in questo periodo che impara a vivere in armonia coi propri pari. Impara a condividere, a rispettare i turni, a tradurre i sentimenti in parole, a far rispettare i propri diritti e a rispondere ai maltrattamenti. Mentre entra in contatto con gli altri, edifica, passo dopo passo, la fiducia in se stesso.
Durante l’età prescolare si registra una progressiva tendenza ad acquisire modalità sociali sempre più adeguate allo svolgimento della cooperazione. Gli anni della scuola materna sono caratterizzati dalla cultura dei coetanei, ossia da quell’insieme stabile d’attività, routine ed obiettivi comuni che i bambini condividono durante l’interazione con i coetanei. L’importanza di partecipare alla vita di gruppo, il tentativo di affrontare le incertezze e le paure e il mettere in discussione ciò che dice l’adulto, rappresentano i temi dominanti di tale cultura.
Gran parte delle interazioni tra pari avvengono all’interno di situazioni di gioco. Grazie alle capacità verbali e al gioco simbolico che i bambini padroneggiano, essi sono in grado di costruire nuove versioni della realtà, comunicare significati, negoziare regole. Non sempre, però, il bambino riesce a sentirsi parte del gruppo: le relazioni con i bambini della sua età sono radicalmente diverse dall’universo famigliare. Nella famiglia è amato ed accettato per quello che è, invece, tra gli altri bambini potrebbe non essere così. Il mondo dei bambini ha un sistema tacito di regole e d’esigenze, che contribuiscono a sottolineare sia i propri punti di forza che le proprie debolezze: si può essere accettati ma si può anche essere rifiutati. Connesse con le relazioni d’accettazione, rifiuto ed isolamento ci sono spesso forme di interazione di tipo prosociale oppure aggressivo. Le condotte prosociali denotano un interesse verso l’altro, a condividere risorse, a partecipare ad attività, un’esigenza di voler mantenere un legame. Queste azioni possono essere il frutto di una partecipazione empatica, vale a dire di un riconoscimento delle emozioni del compagno e di una risposta emotiva corrispondente.
Le interazioni di tipo aggressivo sono piuttosto comuni negli anni prescolari perché costituiscono una forza importante che può consentire di superare la dipendenza infantile e garantire l’affermazione di sè. L’aggressività è legata al processo di separazione-individuazione che il bambino adottato intraprende grazie al rapporto con i nuovi genitori. Essa deve essere vista come un movimento sano e vitale, essenziale alla separazione, al senso di realtà e di conoscenza.
Quando il bambino avanza nei rapporti utilizzando spesso, però, condotte di tipo aggressivo, diventa necessario fornirgli un argine, un confine, un contenimento, vigoroso e determinato. L’aggressività deve essere utilizzata in maniera produttiva per poter mantenere una buona competenza sociale. È necessario trovare una mediazione tra la necessità di opporsi per affermare i propri bisogni e quella di non perdere i legami con il gruppo. Il bambino molto attivo, turbolento e poco collaborativo rischia periodi di incertezza e di tensione con i suoi coetanei di essere rifiutato. Per reazione egli poterebbe ritrarsi in se stesso ed evitare gli altri bambini. Consentirgli di restare al riparo dentro casa e di isolarsi, non è una buona strategia per i genitori che si trovano a dover fronteggiare tali problematiche. Il genitore che si trova davanti a tali situazioni deve sostenere il bambino nel riconoscere, non negare, le proprie emozioni e comunicargli che non c’è nulla di strano in quello che sta provando e che si cercherà insieme una soluzione.
A partire dai tre anni il bambino incomincia a notare le differenze di genere e ad assumere comportamenti dell’uno o dell’altro sesso che vede assumere dagli adulti.
Secondo Freud il bambino attraversa la fase fallica caratterizzata da un forte interesse sessuale per i propri genitali. In questo periodo il bambino elabora il complesso di Edipo, ossia, vive fantasie e desideri per il genitore dello stesso sesso e una forte rivalità e gelosia per il genitore dello stesso sesso.
Il superamento di questo complesso costituisce un punto centrale nello sviluppo della personalità. Esso avviene, nel maschio, attraverso il complesso di castrazione da parte del padre rivale, del quale teme la vendetta per aver provato desiderio sessuale verso la madre. Ha così inizio un processo d’identificazione con il padre prima odiato e ora preso a modello di viralità. Nella femmina, invece, la constatazione di non avere un pene la porta, prima ad innamorarsi del padre, ponendosi così in rivalità con la madre, in seguito a superare tale rivalità identificandosi con la propria madre. Importante, nel processo d’identificazione sessuale, è quindi, il modo di comportarsi dell’adulto verso il bambino o la bambina: sentirsi riconosciuto ed apprezzato dal genitore dell’altro sesso, è per i bambini, motivo d’orgoglio e favorisce l’identificazione con il proprio sesso.
È importante che i genitori rispondano sempre alle domande, fornendo spiegazioni concrete, magari con esempi che facciano riferimento alla vita, al mondo, alle azioni del bambino stesso. A volte, la sua legittima curiosità diventa quasi un gioco di provocazione nei confronti dell’adulto: il bambino cerca di metterlo alla prova per verificare la sua prontezza. Occorre rispondere sempre francamente e con sincerità, perché il rischio di rispondere evasivamente o di rinviare la risposta può suscitare nel bambino maggiori dubbi. Le domande poste all’adulto hanno una forte valenza comunicativa e richiedono risposte di tipo affettivo: il bambino vuole sentirsi dire che esiste e che gli si vuole bene, che anche se è noioso gli si dà retta, che non lo si è ingannato nelle risposte precedenti.