Il termine burn-out, “bruciato”, “scoppiato”, “esaurito”, ha fatto la sua prima apparizione nel gergo del mondo dello sport nel 1930 per indicare l’incapacità di un atleta, dopo alcuni successi, ad ottenere ulteriori risultati e/o mantenere quelli acquisiti. Lo stesso termine è stato riproposto in ambito socio-sanitario per la prima volta nel 1975 dalla psichiatra americana Maslach la quale, nel corso di un convegno, utilizzò questo termine per definire una sindrome i cui sintomi testimoniano l’evenienza di una patologia comportamentale a carico di tutte le professioni ad elevata implicazione relazionale.
Alcuni Autori identificano il burn-out con lo stress lavorativo specifico delle helping professions, le professioni dell’aiuto che comprendono figure come medici, psicologi, infermieri, assistenti sociali, ecc.
Maslach definisce il burn-out come la “sindrome caratterizzata da esaurimento emozionale, depersonalizzazione e riduzione delle capacità personali”.
Le cause del fenomeno più frequenti sono: il lavoro in strutture mal gestite, la scarsa o inadeguata retribuzione, l’organizzazione del lavoro disfunzionale o patologica, lo svolgimento di mansioni frustranti o inadeguate alle proprie aspettative oltre all’insufficiente autonomia decisionale e a sovraccarichi di lavoro.
La sindrome si caratterizza per una condizione di nervosismo, irrequietezza, apatia, indifferenza, cinismo, ostilità degli operatori sociosanitari, sia fra loro sia verso terzi, che però si distingue dallo stress, eventuale concausa del burn-out così come si distingue dalle varie forme di nevrosi, in quanto non disturbo della personalità ma del ruolo lavorativo.
Queste manifestazioni psicologiche e comportamentali possono essere raggruppate, come dalla precedente definizione della Maslach, in tre categorie di disturbi:
- L’esaurimento emotivo consiste nel sentimento di essere emotivamente svuotato e annullato dal proprio lavoro, per effetto di un inaridimento emotivo nel rapporto con gli altri.
- La depersonalizzazione si manifesta come un atteggiamento di allontanamento e di rifiuto (risposte comportamentali negative e sgarbate) nei confronti di coloro che richiedono o ricevono la prestazione professionale, il servizio o la cura.
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La ridotta realizzazione personale che riguarda la percezione della propria inadeguatezza al lavoro, la caduta dell’autostima e la sensazione di insuccesso nel proprio lavoro.
Il soggetto colpito da burn-out manifesta sintomi aspecifici (irrequietezza, senso di stanchezza, apatia, nervosismo, insonnia), sintomi somatici con insorgenza di vere e proprie patologie (ulcere, cefalee, disturbi cardiovascolari, difficoltà sessuali ecc.), sintomi psicologici (depressione, bassa stima di sé, senso di colpa, sensazione di fallimento, rabbia, risentimento, irritabilità, aggressività, alta resistenza ad andare al lavoro ogni giorno, indifferenza, negativismo, isolamento, sospetto e paranoia, rigidità di pensiero e resistenza al cambiamento, difficoltà nelle relazioni con gli utenti, cinismo, atteggiamento colpevolizzante nei confronti degli utenti e critico nei confronti dei colleghi).
L’insorgenza della sindrome negli operatori sanitari segue generalmente quattro fasi:
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la prima fase, quella dell’entusiasmo idealistico, è caratterizzata dalle motivazioni che hanno indotto gli operatori a scegliere un lavoro di tipo assistenziale, ovvero motivazioni consapevoli (migliorare il mondo e se stessi, sicurezza di impiego, svolgere un lavoro meno manuale e di maggior prestigio) e motivazioni inconsce (desiderio di approfondire la conoscenza di sé e di esercitare una forma di potere o di controllo sugli altri); tali motivazioni sono spesso accompagnate da aspettative di “onnipotenza”, di soluzioni semplici, di successo generalizzato e immediato, di apprezzamento, di miglioramento del proprio status e altre ancora.
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Nella seconda fase, la stagnazione, l’operatore continua a lavorare ma si accorge che il lavoro non soddisfa del tutto i suoi bisogni. I risultati del forte impegno iniziale sono via via sempre più inconsistenti. Si passa così da un superinvestimento iniziale a un graduale disimpegno dove il sentimento di profonda delusione avanza determinando nell’operatore una chiusura verso l’ambiente di lavoro ed i colleghi.
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La fase più critica è la terza, quella della frustrazione. Il pensiero dominante dell’operatore è di non essere più in grado di aiutare nessuno, con profonda sensazione di inutilità e di non rispondenza del servizio ai reali bisogni dell’utenza. Il vissuto dell’operatore è un vissuto di perdita, di svuotamento, di crisi di emozioni creative e di valori considerati fondamentali fino a quel momento. Come fattori di frustrazione aggiuntivi intervengono lo scarso apprezzamento sia da parte dei superiori sia da parte degli utenti, nonché la convinzione di una inadeguata formazione per il tipo di lavoro svolto. Il soggetto frustrato può assumere atteggiamenti aggressivi (verso se stesso o verso gli altri) e spesso mette in atto comportamenti di fuga (quali allontanamenti ingiustificati dal reparto, pause prolungate, frequenti assenze per malattia).
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Il graduale disimpegno emozionale conseguente alla frustrazione, con passaggio dalla empatia all’apatia, costituisce la quarta fase, durante la quale spesso si assiste a una vera e propria morte professionale. Le difese intrapsichiche di evitamento, fuga, negazione e proiezione persecutoria sono meccanismi che non fanno che alimentare uno stato di disagio, di perdita di ideali e di “impotenza appresa” e che possono essere indicatori di inadeguatezze organizzative e di realtà socio-lavorative carenti dal punto di vista della gestione delle risorse.
Questo progressivo susseguirsi di fasi da un livello molto alto di motivazione ed aspettative ad un livello di demotivazione e di vissuti di profonda infelicità e frustrazione, è anche riconducibile ad una visione del lavoro sociale fortemente influenzata da una ideologia di tipo assistenziale, per la quale medici, psicologi, infermieri, assistenti sociali, educatori, ecc. sono ancora considerati come professionisti di un tipo di lavoro inadeguatamente retribuito e di beneficenza.
Ma l’incontro con i bisogni dell’utenza porta l’operatore del sociale a dimenticare, o meglio a trascurare inconsapevolmente i propri bisogni profondi e le proprie motivazioni. Questo atteggiamento, come abbiamo visto nelle quattro fasi precedentemente descritte, si trasforma gradualmente in un senso di impotenza, di disagio, che rende l’operatore, precedentemente immerso in una immagine di salute, bontà e potere, vittima del dolore, del disagio e del bisogno espressi dall’utente. L’impossibilità di aiutare facilita quindi l’insorgenza del dubbio circa le proprie capacità e l’operatore, che era partito da una fortissima idealizzazione della professione, sperimenta la frustrazione prima e il burn-out poi. Nella concretezza quotidiana le capacità personali giocano un ruolo importantissimo almeno quanto le capacità tecnico-professionali. Per capacità o abilità personali in psicologia s’intendono l’empatia, la capacità di adattamento alle diverse situazioni, l’autocontrollo, l’iniziativa e la fiducia in se stessi, la competenza nella gestione del lavoro e la capacità nel costruire relazioni in modo creativo ed efficiente. Ciò che Goleman definisce “intelligenza emotiva” è appunto la capacità delle persone di affrontare in modo efficace ed ottimale le difficoltà della vita. La possibilità di contattare intimamente le proprie emozioni è data proprio da questa intelligenza emotiva e consente all’individuo di sviluppare la propria personalità in modo flessibile e creativo. Tutto ciò, proiettato all’interno della relazione medico-paziente consentirebbe al primo di essere empatico e sensibile alle reali esigenze del secondo.
Nel burn-out esiste la difficoltà di misurarsi con le proprie emozioni e quindi il non riconoscimento del problema con conseguente sentimento di rassegnazione rispetto alla vita.
E’ questo un modo o meglio un tipo di difesa che consente di attenuare la sofferenza. Occorre provare ad ascoltarsi, a guardarsi dentro, a recuperare dentro di sé la propria motivazione e la propria capacità di alimentare desideri. Di fronte alle macerie dei propri ideali è quasi “normale” sentire il peso del fallimento delle proprie prospettive di autorealizzazione.
C’è da dire inoltre che il burn-out non è un problema personale che riguarda solo chi ne è affetto, ma è una “malattia” contagiosa che si propaga in maniera altalenante dall’utenza all’équipe, da un membro dell’équipe all’altro e dall’équipe agli utenti e riguarda quindi l’intera organizzazione dei servizi, degli utenti della comunità oltre che il singolo individuo.
Le conseguenze di tutto ciò sono, si ripercuotono su:
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operatori che pagano il burn-out in termini personali, anche attraverso gravi somatizzazioni, ma soprattutto attraverso dispersione di risorse, frustrazioni e sottoutilizzazioni di potenziali;
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utenti, per i quali un contatto con gli operatori sociali in burn-out risulta frustrante, inefficace e dannoso;
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comunità in generale che vede svanire forti investimenti nei servizi sociali.
Abbiamo visto quali sono i fattori che determinano e nel tempo alimentano la sindrome del burn-out e anche quali modelli di difesa vengono messi in atto da chi è vittima di questa sindrome. La prevenzione o il superamento di una situazione di burn-out non può prescindere da un reale cambiamento delle condizioni in cui lavora l’operatore. L’organizzazione del lavoro d’aiuto deve pertanto prevedere innanzitutto la creazione di un clima lavorativo (cioè lo stato d’animo del sistema) positivo attraverso l’analisi e il confronto delle motivazioni e delle prestazioni dell’équipe lavorativa contemporaneamente ad un attento esame che tenga presenti realtà quali la legislazione, i cambiamenti culturali e strutturali organizzativi dei servizi, le gerarchie e i relativi ruoli, i poteri e le responsabilità, le competenze e la formazione professionale.
Garantire un clima che sia gratificante per l’operatore significa gestire il suo carico emotivo personale a favore della promozione del benessere psicofisico e prevenire problematiche relative a stress lavorativo.
Occorre quindi richiamare l’attenzione sull’importanza fondamentale della prevenzione e della terapia di una sindrome come quella del burn-out, che rappresenta senz’altro la patologia di un’organizzazione lavorativa, con conseguenti ripercussioni negative sia sulla salute dell’operatore sia sulla qualità dei servizi forniti alla collettività.
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