I concetti di stress e burn-out, benchè differenti, rappresentano un percorso ipotetico cui molti operatori socio sanitari vanno incontro nella propria esperienza lavorativa quotidiana: la presenza di una situazione difficile che induce ad una reazione adattiva nel soggetto coinvolto ed infine conduce alla sua cristallizzazione in una sindrome specifica.

Dalla sua prima formulazione ad opera di Selye (1936) il concetto di stress ha subito profonde evoluzioni: inizialmente utilizzato per indicare la reazione biologica adattiva di un qualunque organismo ad uno stimolo esterno, essenzialmente fisico, il concetto di stress è stato poi spiegato come sindrome di adattamento caratterizzata da una prima fase di allarme di reazione agli stressors, da una seconda fase, detta di resistenza, in cui le difese allertate nella prima sono in precario equilibrio, ed infine, una terza fase in cui, perdurando gli stressors, vengono ad esaurirsi le difese con il conseguente sviluppo di uno stato di esaurimento funzionale.
Successivamente Lazarus ha stabilito che gli stimoli esterni, soprattutto se di bassa intensità e di tipo psicosociale, vengono processati e valutati a livello cognitivo e che esiste un’elevata variabilità individuale in questa possibilità di elaborazione cognitiva dello stimolo stressogeno e della successiva modalità di risposta legate alla personalità, all’esperienza appresa ecc.

Gli studiosi del campo relativo alla psicologia del lavoro hanno, a tal proposito, evidenziato che nell’uomo moderno il contesto sociale e lavorativo è quello che risulta essere maggiormente in grado di attivare risposte di stress sia dal punto di vista comportamentale sia dal punto di vista fisiopatologico.
Le condizioni fisiche dell’ambiente lavorativo o la fatica fisica, il ruolo e le relazioni lavorative, la gestione del lavoro, la burocratizzazione sono tutte variabili capaci di elicitare negli operatori i sintomi che sostanziano la sindrome del burn-out: apatia, perdita di entusiasmo e senso di frustrazione.

Più in particolare i comportamenti lavorativi messi in atto dagli operatori in fase di burn-out riguardano soprattutto il rapporto interpersonale con l’utenza nel momento in cui tale rapporto perde la proprietà di relazione d’aiuto e diviene essenzialmente una relazione tecnica di "servizio": perdita dei sentimenti positivi verso l’utenza e la professione, perdita della motivazione, dell’entusiasmo e del senso di responsabilità, evitamento delle relazioni, delle visite e delle telefonate, utilizzo di un modello lavorativo stereotipato con procedure standardizzate e rigide, cinismo verso la sofferenza, evitamento delle discussioni e difficoltà ad attivare processi di cambiamento.

C’è chi fornisce aiuto per "mestiere": si tratta di un’ampia schiera di professionisti, impegnati in svariati ambiti, da quello educativo, a quello assistenziale, sociale, riabilitativo e sanitario (si pensi ai medici, operatori sanitari, terapisti, operatori sociali, educatori, psicologi, psichiatri), che costituiscono appunto le cosiddette "professioni di aiuto" (helping professions).
Come si caratterizza una relazione di aiuto "professionale"? L’aiuto è un processo relativamente complesso nel quale non c’è semplicemente chi è in difficoltà e chi può aiutarlo, ma due soggetti profondamente coinvolti in una relazione di scambio, dove entrambi impareranno qualcosa. Si tratta chiaramente di un rapporto asimmetrico, tra chi è in condizioni di poter offrire e gestire un aiuto e chi invece richiede l’aiuto; è un rapporto caratterizzato quindi da un insieme differenziato di risorse, che vengono scambiate, sulla base di un "contratto" per la costruzione di un progetto comune.
In caso di risorse scarse o insufficienti, il professionista deve contribuire a crearne delle nuove: aiutare significa anche lasciare pochi margini alla "passività" dell’altro e alla possessività di chi aiuta; significa soprattutto attivare all’interno della relazione tutte le potenzialità dell’individuo, stimolare l’empowerment personale.
Nei diversi contesti di aiuto, al di là delle circostanze particolari proprie di ogni situazione, sono presenti contraddizioni e ambivalenze, riconducibili alla dialettica tra norme sociali e valori morali e alla loro gestione in ambito professionale. Si tratta in particolare di conflitti di valore e di "dilemmi" delle professioni di aiuto, che caratterizzano proprio queste professioni e possono tradursi in una fonte di stress per chi aiuta e in una fonte di danno per chi è aiutato.

Tra le diverse possibilità di conflitto, ci possono essere:

  • conflitto tra necessità di basarsi sul proprio giudizio di fronte a decisioni da prendere e l’esigenza di mantenere una visione critica sui propri giudizi;
  • conflitto tra l’obbligo di comportarsi coerentemente con il proprio sistema di credenze e valori, decidendo ciò che si ritiene "un bene" per la persona da aiutare e l’esigenza di rispettare il sistema di credenze e di valori di quest’ultima;
  • la necessità di ottenere il consenso del cliente/utente su provvedimenti da prendere nei suoi confronti e la consapevolezza che questi non sempre ha gli strumenti per prevedere e comprendere tutte le conseguenze degli interventi che sceglie;
  • conflitto tra la spinta a terminare un piano di intervento di aiuto e la consapevolezza dei propri limiti, in situazioni in cui l’intervento stesso appare chiaramente inutile.

Tali dilemmi trovano origine in una distorsione dei valori che dovrebbero definire il ruolo professionale di chi aiuta. Si può citare l’imparzialità, che non dovrebbe indicare neutralità morale, ma rispetto dell’altro e dei suoi valori; la razionalità, che non significa rigidità arbitraria, ma riflessione, ricerca e attenzione alle possibili soluzioni alternative di un problema; la conoscenza empirica che non si traduce in difesa di punti di vista predeterminato, ma implica apertura a possibili modifiche; rispetto per la dignità dell’altro, che comporta il rifiuto di qualsiasi manipolazione che trasformi l’aiuto in intervento fine a se stesso.
È comunque altrettanto chiaro che chi esercita queste professioni deve essere consapevole delle complesse dinamiche che costituiscono la relazione di aiuto. In riferimento a questo tema, da tempo l’attenzione degli studiosi si è focalizzata sull’analisi dei "costi" che lavorare in certe condizioni e con categorie di utenti problematici comporta, sotto il profilo psico-emotivo, per chi svolge una "professione di aiuto”.
Questi operatori infatti possono trovarsi nella situazione di dover rispondere a bisogni e a domande non sempre soddisfabili, sia per la limitatezza delle risorse del servizio o per la sua inadeguata organizzazione, sia perché le richieste sono "improprie" (non formulate correttamente o ambigue): per questo, dopo un certo periodo di tempo, presentano uno stato di logoramento e di stress psicofisico, che li rende meno attenti e disponibili nei confronti degli utenti.
C’è in altri termini un calo professionale e psicologico, che può portare anche all’insorgere di situazioni conflittuali con le persone, o comunque a un deterioramento nei rapporti interpersonali. Questo fenomeno viene descritto in letteratura come "sindrome del burn-out", termine introdotto inizialmente da Freudenberger e poi ripreso e approfondito da Maslach, e tradotto con espressioni del tipo "bruciato", "esaurito", "scoppiato".
Psicologicamente rappresenta il tipo di risposta ad una situazione avvertita come intollerabile, in quanto l’operatore percepisce una distanza incolmabile tra quantità delle richieste rivoltegli dagli utenti, e risorse disponibili (individuali e organizzative) per rispondere positivamente a tali richieste. Ne deriva un senso di impotenza acquisita, dovuta alla convinzione di non poter fare nulla per modificare la situazione, per eliminare l’incongruenza tra ciò che si ritiene che l’utente si aspetti e ciò che si è in grado di offrirgli.
Ciò porta ad un esaurimento di energie che si può manifestarsi con dei sintomi fisici (quali fatica, frequenti mal di testa, disturbi gastrointestinali, insonnia, cambiamenti nelle abitudini alimentari, uso di farmaci), psicologici (da senso di colpa, negativismo, alterazioni dell’umore, scarsa fiducia in sè, irritabilità, scarsa empatia e capacità di ascolto), reazioni comportamentali sul luogo di lavoro (assenze o ritardi frequenti, chiusura difensiva al dialogo, tendenza ad evitare contatti telefonici e a rinviare gli appuntamenti, distacco emotivo dall’utente, scarsa creatività, ricorso a procedure standardizzate, spersonalizzazione nei rapporti).

fattori di insorgenza del burn-out sono stati oggetto di numerosi studi in ambiti lavorativi diversi (e con particolari categorie di operatori), secondo due orientamenti principali, uno che sottolinea la prevalenza delle condizioni ambientali (concernenti aspetti fisici ed organizzativi del luogo di lavoro), l’altro che evidenzia l’incidenza delle caratteristiche personali (riferibili a caratteristiche motivazionali e a tratti di personalità).

Ci sono poi fattori di tipo culturale e storico-sociale, legati cioè alle caratteristiche concrete che in un dato momento storico assume la relazione operatore-utente nel contesto reale di lavoro. I grandi cambiamenti sociali avvenuti negli ultimi anni nel nostro paese nell’ambito delle politiche sociali, economiche e culturali, l’emergere di movimenti e gruppi sociali organizzati come nuovi attori ed interlocutori, la diffusione di nuove forme di patologie e l’assenza di cure efficaci hanno messo alla prova i sistemi di valore tradizionali, contribuendo al venir meno di ruoli e strutture sociali che prima costituivano riferimenti sicuri.

La prospettiva teorica, condivisa ormai nella letteratura più recente, considera il burn-out non solo come un sintomo di una sofferenza individuale collegata all’attività di lavoro, o come un possibile indicatore di inadeguatezze organizzative, ma anche come un problema di natura sociale, prodotto di dinamiche socio-politiche-economiche.

Tra gli strumenti individuabili finalizzati allo sviluppo di modelli di prevenzione e gestione del burn-out: la formazione permanente ed i gruppi di supporto per gli operatori in cui gli incontri, a cadenza, settimanale sono focalizzati su spazi di discussione relativi a casi difficili, scelte terapeutiche, problemi interpersonali con altri colleghi dello staff o di staff diversi.
La variabile più importante da supportare è quella del clima, caratterizzato da scambio reciproco, da sostegno e da un’assenza totale della dimensione giudicante.

Gli obiettivi di tali strumenti sono volti a:

  • creare un senso di coesione sociale;
  • sensibilizzare i cittadini sulle problematiche più rilevanti della comunità e a proporre mete comuni di azione;
  • utilizzare le competenze dei professionisti per sostenere ed incrementare la partecipazione democratica, la cooperazione volontaria, le esperienze di auto e mutuo aiuto;
  • promuovere le capacità dei leader locali;
  • contribuire al coordinamento tra i servizi e i movimenti di opinione e i gruppi sociali;
  • sviluppare il sentimento di appartenenza e di connessione personale, che riguarda il livello di identificazione con gli altri membri, garantito dalla presenza di confini che delimitano "chi è dentro" da "chi è fuori", permettendo così lo sviluppo della sicurezza emotiva necessaria per realizzare un clima in cui lo scambio affettivo può avvenire con tranquillità. Si creano in tal modo le condizioni per attuare un investimento emotivo, di risorse e di energie personali nella comunità;
  • integrare e soddisfare i bisogni, che si riferisce alla certezza da parte dei membri di poter soddisfare i propri bisogni attraverso l’accesso alle risorse rese disponibili dall’appartenenza al gruppo;
  • gestire situazioni emotivamente condivise, che consente il legame di interdipendenza tra i membri, rinforzato dal condividere eventi significativi (come guerre, catastrofi, danni ambientali), dal successo nell’affrontare certi eventi, dal riconoscimento dato ad alcuni membri della comunità.