Nel nostro paese né slogan, né "strilli" accompagneranno domenica 21 settembre la XV Giornata mondiale dell’Alzheimer. All’isolamento delle famiglie dei malati, quasi 600.000, si aggiunge ora il silenzio dei politici, delle istituzioni e della società. C’è chi tra i clinici parla di disattenzione. Pare qualcosa di più, se dal ministro del Welfare Sacconi non è mai stato fatto neppure un cenno di risposta alla richiesta di un incontro che da mesi l’Associazione italiana dei malati di Alzheimer (Aima) auspica.
Non ci sono nuove terapie alla ribalta. Gli entusiasmi degli anni Novanta per il progetto Cronos sono esauriti, mentre i farmaci disponibili hanno svelato non pochi limiti. Quel che resta, a parte la migliorata conoscenza della malattia tra l’opinione pubblica, è meno di niente.

Le liste d’attesa
"La demenza di Alzheimer segna le differenze, tra ricchi e poveri, tra Nord e Sud del paese", afferma Patrizia Spadin, presidente di Aima, "ogni regione è a sé: la Toscana e l’Emilia Romagna molto attente seppure con qualche crepa, la Lombardia ha abdicato a favore del privato, affiancata dal Veneto che punta al privato sociale, il Lazio con la rete di Centri diurni ha problemi di liste d’attesa e privilegia i residenti, poi tante Regioni con il nulla, intanto i costi per le famiglie sono insostenibili (oltre 50 mila euro l’anno la spesa per un malato di Alzheimer esclusi i 1.000-1.500 euro al mese per la badante) e i governi che si alternano con arroganza fanno previsioni per il futuro".
"Il nostro Servizio sanitario nazionale e socio-assistenziale", si legge nella più recente indagine della Fondazione Censis sulla condizione delle famiglie con un malato di Alzheimer, "non riesce per ora a dare risposte e soluzioni per la presa in carico di patologie croniche invalidanti della condizione anziana in una società che peraltro invecchia sempre di più". Dice Orazio Zanetti, primario U.O. Alzheimer Centro per la memoria all’Irccs San Giovanni di Dio di Brescia: "Abbiamo sul territorio nazionale circa 500 Unità di valutazione Alzheimer, le UVA, sorte con un decreto del 2000, di queste la metà lavora seriamente, eppure oltre la diagnosi precoce e qualche farmaco nelle fasi iniziali di malattia, c’è il vuoto".

L’esempio del Giappone
La "malattia famigliare", è così che i medici definiscono l’Alzheimer, che sgretola negli anni l’autonomia cognitiva, affettiva e funzionale del malato, irrompe all’interno del nucleo famigliare con effetti spesso devastanti. "Manca un piano nazionale capace di tracciare un percorso di malattia e di servizi prossimi alla famiglia, non c’è epidemiologia, non si fa riabilitazione, non si sfrutta la telemedicina, si aspettano i farmaci ma la risposta da dare alle famiglie non è solo medica bensì politica e sociale anche perché sono in atto mutamenti profondi della popolazione", sottolinea Paolo Maria Rossini, ordinario di Neurologia e direttore scientifico del Campus Biomedico di Roma.
Così mentre Francia, Gran Bretagna, Germania hanno un welfare compatibile e rafforzano la rete socio-sanitaria-assistenziale che il Giappone ha creato in pochi anni, "il modello d’intervento italiano è il coinvolgimento totale della famiglia, convinta finora che la casa debba essere il luogo deputato all’assistenza", commenta Concetta Vaccaro, responsabile Welfare della Fondazione Censis. La risorsa, a volte l’unica, per l’80% dei malati di Alzheimer è il coniuge o un figlio. "Il caregiver, ossia la persona responsabile del malato, è donna. La moglie già avanti negli anni se si ammala il marito, di solito la figlia, cinquantenne con un lavoro e un suo nucleo famigliare, per la madre. Noi", spiega Zanetti, "le chiamiamo "donne sandwich" o di mezzo, che esposte a enormi sollecitazioni nel tempo scontano un progressivo isolamento con rischi per il loro benessere psico-fisico. Non ci sono ancora nelle famiglie dinamiche di rifiuto o espulsive, domani non sappiamo se sarà diverso".
Alle UVA, create attorno a metà anni Novanta poi ridotte a mere distributrici di farmaci, si rivolgono due terzi dei pazienti, l’attesa media è di circa tre mesi e mezzo. Drammaticamente inadeguata l’assistenza domiciliare socio-assistenziale integrata e non, della quale usufruisce meno di un paziente su cinque (in ogni caso salita al 18,5% rispetto al 6% del 1999), solo il 24,9% dei pazienti frequenta i Centri diurni i cui costi ricadono sulla famiglia che nelle fasi avanzate di malattia usufruisce di un indennità di accompagnamento di circa 400 euro, tardivi e insufficienti, i ricoveri sono pochi (20,9%), i 230 mila posti letto delle Rsa pubbliche sono occupati per metà da persone con demenza, praticamente assenti i ricoveri di sollievo.

Le badanti
L’unico cambiamento di questi ultimi anni è stato l’introduzione nelle famiglie di una nuova figura, la badante, visto l’assottigliamento del caregiver moglie-figlia. Un terzo dei pazienti con Alzheimer moderata-severa è seguito da una donna, straniera (polacca, rumena o ucraina), mediamente giovane con un minimo di scolarità, ma nessuna preparazione specifica. Restano le aspettative dei famigliari: aiuti economici, sgravi fiscali, sistema della domiciliarità (Adi, Centri diurni, Centri notturni, letti di sollievo), potenziamento delle UVA. Nell’attesa non resta che attrezzarsi con il cuore a combattere una lunga e solitaria battaglia.

Fonte: La Repubblica.it